Un antro semiinterrato, scavato nella roccia viva; in un angolo lo zampillo di una sorgente, luminoso al cospetto del nero delle pareti; una lunga fila di tenaglie a tratti illuminate dalla fiamma delle forge che, più che luce, diffondono ombre danzanti sulle pareti con movenze paranaturali; il muovere armonioso del fabbro che va dalla forgia al maglio e da qui all’incudine; il ritmo del battimento: un tam-tam che evoca i genî dell’officina di Vulcano.
Non so se Omero sia mai entrato veramente nella grotta di un ferraio. Se lo avesse fatto, l’opera sua si sarebbe arricchita di ancor più preziosi versi.
Ma qui non si forgiano armi per l’impetuoso e bellicoso Achille. Nel nostro antro si lavora per il pacifico esercito di Cerere.
Qui nascono falci, bidenti, rastrelli e zappe. Così le ombre vaganti sulle pareti assumono il sembiante di Amici che furono, e lo sciabordare dell’acqua sulla ruota idraulica pare esprimere la loro gioia di potersi manifestare.
Queste righe involontariamente “poetiche”, sembrano volerci portare alla scoperta di un rudere che sorge dal mito, al ritrovamento del discendente diretto, forse l’ultimo, della stirpe che ebbe per capostipite quell’Efeso che tanto ispirò Omero.
Al contrario, il nostro fabbro è una realtà umana che lega senza traumi il presente all’arcaico, e tuttavia, come tra i Celti, egli è ancora il sacerdote dell’etereo fuoco e della materia.
Si vuole che, nel corso del tempo, la meccanizzazione del molino da farina sia avvenuta prima di quella della ferriera, come dire il superfluo venne dopo l’indispensabile. Secondo un’autorevole nota sull’argomento (Un martinet de forge du XIV sieclè, Association St. Jeant le Vieux, “Archeologia”, n° 123, october 1978) la utilizzazione della ruota idraulica per i “molini a ferro”, come li chiamano i Francesi, sarebbe incominciata intorno al 1000-1100. La prospettiva di maggiori proventi favorì, in quel periodo, la trasformazione dei molini da grano in ferriere. Forse anche nella nostra valle le antiche ferriere, delle quali fa menzione R. Benso (Voltaggio Terra di Lemme, Cassa Risparmio di Alessandria), furono il risultato della conversazione di preesistenti molini da frumento.
La realizzazione di questi rudimentali magli detti “a testa di ariete” fu una intuitiva utilizzazione della leva, che, come è noto, da Archimede in poi fu feconda di applicazioni in svariati strumenti meccanici, applicazioni, se si vuole, rese facili dalla possibilità di trovare in natura tronchi per fabbricare i robusti bracci di leva.
Il maglio del quale si parla, è costituito da una lunga trave di legno, un tronco d’albero appena squadrato, ad una estremità della quale è incastrata una mazza di ferro del peso di circa 60 Kg. La trave è incernierata, a circa un quarto della sua lunghezza, con uno spinotto che funge da fulcro.
Questa leva è mossa alternativamente da un rocchetto dentato, calettato sull’asse della ruota idraulica. Tutti questi componenti, un tempo, erano realizzati totalmente in legno.
Questo tipo di maglio nacque a Molini appena un secolo fa. Già allora vi fu una sorta di contestazione ecologica, avversa alla realizzazione dell’impianto. Infatti l’intelligente intraprendenza del sig. Patrone, che più tardi divenne sindaco di Fraconalto, e poi Cavaliere, trovò in un influente cittadino di Molini un deciso oppositore che lo diffidò dal mettere in moto il maglio perché avrebbe fatto “tremare” il paese, e inoltre avrebbe fatto intorpidire il vino nelle botti. Si racconta che il Patrone abbia posato un bicchiere di vino sul gradino della porta dell’avversario e abbia poi messo in moto il maglio, dimostrando che il vino non era scosso. Poté così avviare l’officina.
Questa sua realizzazione, a parte la romantica roggia, ora intubata, è ancora come a quell’epoca: un lungo canale che dal torrente Lemme porta l’acqua verso due ruote idrauliche, una per i magli, l’altra per le mole che servono per rifinire e affilare i manufatti.
L’aria per le forge è ottenuta con il semplice sistema (oggi chiamato compressione idraulica diretta dei fluidi) di far cadere l’acqua su una pietra posta al centro di una nicchia chiusa, dove automaticamente avviene la separazione dell’aria disciolta nell’acqua stessa, ottenendone un fluido opportunamente umidificato e che aumenta di molto la resa calorifica del carbone bruciato.
La saldatura di due pezzi, qui come altrove, è quasi un rito: avviene per mezzo della “bollitura”, procedimento che consiste nel creare una locale e parziale fusione dei pezzi da saldare, che vengono poi costretti l’uno all’altro da una rapida e sapiente martellatura. Al rito che sposta le molecole di un pezzo e dell’altro, non manca il sacramentale granello di sale, sotto forma di una manciata di terra speciale con la quale il fabbro protegge dall’ossidazione i margini della saldatura.
Il primogenito dei quattro figli del cav. Patrone, dopo qualche tempo, si trasferì in Argentina, dove, non trovando la sede adatta alla costruzione di un maglio ad acqua, finì per richiedere alla “casa madre” in Molini forniture di ferri per l’agricoltura. Iniziò così una significativa esportazione di manufatti che durò sino all’avvento della meccanizzazione dell’agricoltura.
Oggi come ieri, Giuseppe e Vittorio, nipoti del fondatore dell’impresa, continuano a battere il ferro con la stessa perizia e la stessa pazienza dei loro avi, e producono gli stessi strumenti utilizzando le stesse forge e gli antichi magli.
Gli eruditi vedranno in questo “maglio”, un arcaico pezzo da tramandare intatto ai posteri, forse ignorando che la fucinatura è un’arte, e un metodo, che la moderna pressofusione non è riuscita ancora a rendere del tutto obsoleta.
A me sembra un’armoniosa combinazione del presente con il remoto passato, e per questo da segnalare e proteggere come un bene degno di figurare, anche in futuro, nel patrimonio culturale della nostra regione e non di essa soltanto.
Brano di Guglielmo Rebora, tratto dalla rivista Novi Nostra